Cosa succede, piove? Il rumore era tanto forte da ricordare un rovescio improvviso che batte sui vetri. No erano le macchine da scrivere, che tutte insieme producevano un rumore, forte ma gradevole, quasi romantico.
Erano i primi anni del 2000 e io fui tra gli ultimi ad usare la macchina da scrivere all’esame di stato per diventare giornalista professionista.
Al master, che avevo frequentato, ci avevano fatto delle lezioni a riguardo. Mi ricordo di aver portato per le esercitazioni un vecchia Olivetti, che per quanto bella non era funzionale: ci voleva una macchina con tasti leggeri, e poi ci voleva un po’ di pratica. Chi la usava ormai la macchina da scrivere? Quasi nessuno, se non noi, aspiranti giornalisti. E allora tutti lì a battere sui tasti, infilare il foglio, cancellare gli eventuali errori. Eravamo in 700, davanti all’enorme stanzone dell’hotel Ergife a Roma, pronti ad entrare per la prova scritta: un riassunto, un articolo e delle domande; ognuno con la propria custodia. Con la macchina da scrivere dentro.
Saremmo stati tra gli ultimi: poco tempo dopo avrebbero introdotto il computer, più silenzioso, più semplice. Allora invece (e neanche un secolo fa) eravamo armati di bianchetto e di pazienza perché l’aggeggio poteva anche ribellarsi e sul più bello smettere di funzionare. Allora si doveva andare a dirlo – come a scuola con il maestro- al commissario d’esame, e farsela sostituire.
Tante altre cose però, penso non siano più cambiate: l’affollarsi nei bagni per cercare di scambiare qualche domanda, meglio risposta, con i futuri colleghi, le sei ore di tempo per le prove, che in teoria sono tante, in pratica volano, senza farti sentire né fame né sete, e le paure, il sogno, le aspettative. Il passaggio ancora all’orale, le ansie per il risultato e poi una vita da giornalista, il mestiere più bello del mondo.
Rosita Ferrato
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