Gennaio 2009 – Ravello (An): “Penalizzate le famiglie”. Sotto accusa le residenze sociali. Magnano: “La famiglia tradizionale, su cui è costruita la politica abitativa degli ultimi 60 anni, non è più rappresentativa”.
TORINO – Il piano casa varato dal comune di Torino non piace all’opposizione. Secondo il consigliere di An Ravello: “È una ridicola ideologia terzomondista a scapito delle famiglie torinesi alle prese con il calo dei redditi e la generalizzata crisi economica”. Affermare che le residenze sociali siano per migranti, profughi e rifugiati, è intanto una premessa sbagliata. “Si chiamano residenze collettive sociali perché vogliono superare l’equazione alloggio-famiglia” spiega l’architetto Giovanni Magnano, dirigente del settore Edilizia Sociale del comune di Torino. E non perché si sia contrari all’alloggio o alla famiglia, ma perché soprattutto nelle grandi città, la famiglia tradizionale, verso la quale è costruita tutta la politica per la casa degli ultimi 50-60 anni, non è più così rappresentativa”.
Le persone di Torino infatti vivono essenzialmente sole: nel 2007, secondo una tendenza iniziata dagli anni ’80, più del 50% dei nuclei familiari residenti in città sono composti da una sola persona (considerando le persone sole e le famiglie mononucleari di un solo genitore con figlio). L’alloggio “tradizionale” non più è sostenibile: sia per la quantità (non ci sono tanti alloggi quanti sono i singoli) che dal punto di vista economico e sociale “perché – afferma Magnano – quando una persona è barricata in casa, non ha trovato il luogo dove vivere felicemente, ha trovato un anticipo del loculo”. “Una delle sindromi sociali più tipiche della marginalità sociale, legata alle condizioni fisiche, è infatti quella del ‘chiuso in casa’ – spiega –. L’anziano solo che vive in un appartamento separato dagli altri, prima guarda dalla finestra o si affaccia al balcone, poi guarda la televisione, e poi (e purtroppo succede spesso) lo si trova morto dopo giorni, perché nessuno si era curato di suonare alla sua porta”.
A Torino esiste sempre di più un’area di vulnerabilità sociale (magari anche solo passeggera), che riguarda nuove categorie di persone. I nuovi poveri, che chiedono case popolari o ricoveri temporanei, e sono separati o divorziati della classe media, senza più un doppio stipendio “E capita che sia in difficoltà sia chi tiene l’alloggio, sia chi esce di casa”. Le fasce estreme relative all’età: giovani usciti dalla famiglia con lavori precari e anziani, magari anche autosufficienti con la pensione, vedovi o ancora in coppia, ma che possono diventare deboli. Gli stranieri, quelli economici che decidono di migrare per trovare lavoro, che hanno però motivazioni, opportunità e opzioni diverse da chi lascia la propria patria perché spinto dalla guerra o disastri umanitari e sceglie di chiedere asilo o rifugio politico. “In entrambi i casi, però, siano soli o meno (quelli economici spesso han famiglia, i rifugiati sono soli) sono, in una fase della loro vita, più fragili degli altri”.
“L’idea allora è che questa varia umanità, che sono decine di migliaia, non trovi risposta nella edilizia tradizionale, soprattutto quella italiana (rivolta all’acquisto della prima casa e non all’affitto o con affitti non sostenibili)”. La residenza collettiva sociale prova a fare un salto di qualità: si propone di fornire edifici con parti di piccole dimensioni per la vita privata e con in più servizi collettivi. Ad esempio: camere con bagno e cucina collettiva, per 5-6 persone, che abbiano nell’edificio servizi collettivi di rango più importante, magari aperti al pubblico, come un bar o un negozietto o una lavanderia a gettoni. Servizi di cui spesso il territorio è carente, proponendosi anche di essere elementi di riqualificazione urbana. Un’apertura al territorio per non diventare ghetto, “perché il passaggio dalla fragilità al disagio, se non ben governato, è facile”. Altro aspetto, fondamentale: l’auto mutuo aiuto, con la creazione di reti di relazioni interpersonali fra gli occupanti. Esempi? Un micro nido dove ci siano delle mamme; un mix fra anziani e giovani può portare delle nonne a prendersi cura di “nipotini”, anche se non loro. Insomma, conclude Magnano “il contrario del chiuso in casa”.
di Rosita ferrato
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