Chissà perché quando ci si approccia ad alcuni personaggi ottocenteschi il primo pensiero è che siano stati dei noiosi. Anche di Massimo D’Azeglio, l’idea prima è che sia stato personaggio da sbadiglio. Niente di più falso…
Figlio del marchese Cesare Tapparelli D’Azeglio, nasce a Torino nel 1798. Con l’arrivo di Napoleone, tutta la famiglia si trasferisce a Firenze (qui il giovane conosce Vittorio Alfieri; ma anche la piccola Virginia Oldoini che già colpisce tutti per la sua vivace bellezza) per poi ritornare in patria con la restaurazione. Educato da Giorgio Bidone, il nostro appare subito un poliedrico: coltiva a Roma la sua passione per le arti e diventerà allievo del pittore fiammingo Martin Verstappen, cimentandosi abilmente nel ” paesaggio istoriato” che unisce rappresentazioni paesaggistiche a rievocazioni storiche. Lo appassiona anche scrivere e nel 1833 pubblica “Ettore Fieramosca”: un successo! Diventa diplomatico di Carlo Alberto e Primo Ministro di Vittorio Emanuele II cui starà accanto alla fine della 1^ guerra di Indipendenza, in un clima tesissimo segnato dalla dura disfatta militare. Ricordiamo poi la sua famosa frase: “Fatta l’Italia, ora dobbiamo fare gli italiani”, che focalizza il ruolo che il ceto politico e intellettuale dovrà svolgere negli anni a seguire. Un uomo sicuramente instancabile, gaudente, ma al tempo stesso attento allo svolgimento della storia di quegli anni….”Gaudente”!? Sì! Consentiamoci un cenno storico e “rosa” insieme: le sue donne. Nel 1831, D’Azeglio frequenta i circoli romantici milanesi e sposa la figlia di Alessandro Manzoni, Giulia che purtroppo morirà qualche anno dopo. Non riuscendo a stare solo (come tanti uomini), si risposa con Luisa Blondel, vedova del cognato di Manzoni (gli piaceva stare in famiglia!). La Blondel, molto attenta agli ideali indipendentisti, fu una donna con cui D’Azeglio non riuscì mai ad averla vinta: ed infatti se ne separò presto. Ma piacergli, eccome se gli piaceva. Di lei dice : “Ha 31 anno, statura ordinaria, svelta, capelli e occhi neri, un po’ brunetta, denti bellissimi, ed una fisionomia di molte finezza nei contorni: non fo per dire ma è una delle più belle teste che conosco: e per il carattere fra lo spagniuolo e l’italiano”.
Ma a parte le legittime consorti, il nostro non era immune al fascino della bella vita. Ce ne parla Mario Soldati nei “Ritratti storici”: ” Tra le tante “cacce d’ alberi, di rocche e di montagne”, si indovina qualche Nausicaa un po’ meno mitologica di quella raffigurata sulla tela. E lui infatti nelle lettere all’ amico Michelangelo Pacetti la conta in lingua latina sul “dulce foramen”, più espressamente sulla tentazione “ficarum”.
La sua vitalità è prorompente: oltre agli impegni politici, ci sono quelli artistici e quelli delle pubbliche relazioni, come nel salotto torinese della cognata , Costanza (presso l’attuale Fondazione Einaudi) . Si dice che fra le dame, da giovane si fosse guadagnato il nomignolo di “sporcaciùn” e Francesco De Sanctis descrive il suo modo di fare come «un certo amabile folleggiare… pieno di buon umore».
Ce lo immaginiamo, abile ed accattivante, conversare in italiano, francese, piemontese; gli era familiare anche il milanese e qualche intercalare romano o spagnolo.
Il carattere dirompente di quest’uomo emerge anche dalle lettere che ci ha lasciato.
I destinatari? Manzoni, Cesare Balbo, Carlo Alberto, Vittorio Emanuele, Cavour, Rattazzi, Ravel, La Marmora… : per un totale di circa 5 mila epistole a 400 destinatari!
Una penna “vivacissima, brillante, efficace” come la definisce un esimio studioso delle sue lettere, il prof. Virlogeux; un linguaggio assai diretto, poi “epurato” dagli studiosi ottocenteschi. Commenta al riguardo l’emerito studioso: “Hanno banalizzato lo stile di uno che dopo la guarigione dalla blenorragia scriveva ad un suo amico: ‘Ora, per bacco, il mio cazzo pare una triglia lavata dal mare”.
Ebbene: come aggiungere altro?
Vignette di Alberto Calosso
di Rosita Ferrato e Maria Cristina Sidoni
[Pubblicato su NuovaSocietà il 1 aprile 2011]
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