Una rifessione sulla scrittura, una panoramica sulla letteratura di ogni tempo. Soufiane Ben Farhat cita Voltaire, Hemingway, Zola, Flaubert, e propone la sua visione sull’arte dello scrivere, sulla vita. Giornalista e romanziere, saggista, è all’Institut Francais de Tunisie per presentare il suo ultimo libro, il dodicesimo, “Le chat e le scalpel” .
Un titolo che colpisce subito e incuriosisce. “Un divestissement intelligent, un ronronnement litteraire fantastique”. Un titolo stravagante e impegnativo, in molti sensi. Una parte dolce e una ruvida, un gatto che fa le fusa, assieme ad un oggetto disturbante, lo scalpello, che urta e colpisce subito l’attenzione e l’immginario. È in realtà la disillusione dopo la rivoluzione, la storia di un paese, la Tunisia, attraverso le pagine di un romanzo.
Un ritratto corale della società tunisina post 2011, che viene raccontato tramite un gruppo di personaggi. Con le loro vicende viene ricreata una società in crisi, senza più punti di riferimento, malata e tormentata come i suoi protagonisti.
“Je revois le grand hiver – è uno dei passaggi del libro – les rues, les places publiques. Les villes littorales rebelles et les régions intérieures émeutières. Les foules impromptues brisant le carcan de torpeurs ancestrales. Manifs improvisées, pancartes d’infortune, slogans scandès à l’unisson. Instinctifs, certes, mais d’une telle profondeur, à dérouter les plus tenaces des familiarités mentales. Un monde nouveau surgissant des entrailles des entrailles de profondeurs incandescentes. Des morts des blessés, des vies brisées”.
L’autore propone una riflessione profonda sulla narrazione, sul significato di dedicare la vita alla scrittura, di scegliere un’esistenza diversa, di optare per la scrittura quando altrove la gente fa altro; tante questioni che ogni scrittore si pone.
“Il romanzo è il genere più difficile – sottolinea ancora. Una forma letteraria però che in ogni epoca e in ogni paese è riuscita a raccontare la storia meglio di qualsiasi saggio. La rivoluzione russa, quella francese, l’Italia attraverso Italo Calvino e Alessandro Manzoni, perché in un romanzo “non si descrive per forza se stessi, ma la società in cui si vive”.
Perché scrivere? gli viene chiesto. “Perché è il mio destino – risponde pronto.
“La scrittura è l’arte per eccellenza”. È il modo in cui in ogni religione la divinità si esprime, attraverso un libro.
“Scrivo tutto il tempo. È un atto fondamentale, senza la scrittura non potrei vivere”.
E la fusione presunta tra lo scrittore e il suo protagonista? “Lo scrittore è il suo personaggio, pensa la gente, ma non è proprio così. Nella pericolosa arte di scrivere,, non c’è una autobiografia. C’è una parte di me, quello che avrei voluto essere”.
Romanzi, ma anche racconti. Il racconto, un altro genere letterario evocativo, per l’arte e per la vita di Ben Farhat. I racconti di sua madre, “che narrava sempre delle storie, e poi le Mille e una notte. Anche le religioni sono delle storie. Il sogno è una sorta di narrazione, il teatro”.
“Il libro forse un giorno sparirà – conclude – ma la novella, il racconto, non spariranno mai”.
Di Rosita Ferrato
IL CORRIERE DI TUNISI | N. 208 – febbraio 2021
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