Francesca Bellino, nata a Salerno e residente a Roma, è una scrittrice, giornalista, conduttrice e autrice radiotelevisiva. Da tempo si occupa di cultura e transculturalità, di mondo femminile e di diritti umani nell’area arabo-mediterranea, con particolare attenzione alle relazioni tra la sponda sud e quella nord del Mediterraneo.
Collaboratrice di testate italiane ed estere è autrice, tra gli altri, del romanzo Sul corno del rinoceronte (L’asino d’oro, 2014), con cui si è aggiudicata il premio per la narrativa Maria Teresa di Lascia 2015 e Premio Costa d’Amalfi Libri 2014.
Rosita Ferrato ha incontrato l’autrice e ha dialogato con lei sui temi salienti del romanzo e sul suo rapporto, così stretto e passionale, con il Mediterraneo.
Partiamo da questa frase: “Una donna sola a Tunisi fa notizia sempre e comunque”. Lei ha dedicato il libro “a tutte le donne che sono partite”: quanto c’è di lei in questa frase, nella protagonista e nel suo incontro con Tunisi?
Il libro è un elogio alle donne che ogni giorno lottano per conquistare la propria libertà, tra cui le tantissime donne che, nel corso dei secoli, sono partite da sole per rincorrere i propri sogni, senza condizionamenti. A loro è dedicato il libro. Anche le protagoniste del romanzo, Mary e Meriem, sono due donne in cammino. Mary viaggia per costruire la sua professione di antropologa, Meriem è arrivata a Roma per raggiungere il fidanzato: è una “migrante per amore”, come ce ne sono tante nel mondo. La storia si svolge in movimento, è costruita nel presente viaggiando, va indietro nel tempo per elaborare un viaggio precedente e si chiude con un altro viaggio necessario. I motivi di questa scelta sono tanti. Innanzitutto volevo evocare una dimensione a me cara, che per tanti anni mi ha permesso di evolvere come donna e di nutrire la mia identità giornalistica: quella dei viaggi di conoscenza diventati reportage in India, a Buenos Aires, in Medio Oriente. Ma soprattutto volevo che si percepisse il grande sforzo che c’è nell’entrare in contatto con una nuova cultura, quando si arriva in un paese straniero. Mary e Meriem conoscono meglio loro stesse e il loro mondi di provenienza nel processo di avvicinamento alla cultura di appartenenza dell’altra.
La frase “Una donna sola a Tunisi fa notizia sempre e comunque” si riferisce alla percezione di Mary di essere fissata con particolare interesse dai tunisini fermi ai bordi delle strade quando passeggia per la città sola e in abiti troppo succinti. È solo un’idea del personaggio che non si sente a suo agio e comincia a capire che deve modificare il suo comportamento, se vuole avvicinarsi alla cultura dell’amica.
Una storia di un’amicizia e di libertà ambientata tra un’Italia in crisi e una Tunisia in piena trasformazione, dopo la cacciata del presidente Ben Ali nel 2011. Era là, quando è iniziata la rivoluzione?
Sono stata in Tunisia più volte nel 2010, non ero lì il 14 gennaio 2011 ma mi sono immaginata per mesi quella giornata finché, a un certo punto, ho capito che poteva essere l’ambientazione perfetta per parte della mia storia che avevo già scritto. Così Mary arriva in Tunisia il 15 gennaio, il primo giorno di libertà per la Tunisia dopo 23 anni di dittatura, e si trova di fronte un Paese nuovo, in bilico tra festa e protesta, tra sollievo e paura. Una giornata simbolica che nella mia storia rafforza la psicologia dei due personaggi, due donne che compiono le proprie rivoluzioni interiori e cercano di liberarsi della propria dittatura interna: lottano contro quel mostro interiore che può manipolare, condizionare e limitare le vite come fa il potere, allo stesso modo sia se si nasce a sud che a nord del Mediterraneo.
Perché proprio la Tunisia?
Non è possibile scrivere di quello che non si conosce. Per una serie di motivi personali, già dal 2007 avevo cominciato a frequentare regolarmente la Tunisia e ne avevo conosciuto molti aspetti sorprendenti. Ma una delle cose che più mi colpiva ogni volta che giravo per Tunisi, e per i piccoli villaggi costieri e interni, era il senso di oppressione sui volti della gente: uomini e donne, soprattutto giovani. Persone in trappola, arrese ai bordi delle strade o perse davanti a squallide tazzine di caffè, come scrivo nel romanzo, imprigionate nella loro terra e private della possibilità di viaggiare senza un visto. In Italia, frequentavo un’amica tunisina e seguivo per lavoro molte storie di migrazione. La storia è nata prima del 2011 insieme all’idea di portare in letteratura la dimensione dello specchio tra la riva sud e la riva nord del Mediterraneo e cercare di dare vita a pagine di letteratura capaci di valorizzare l’identità mediterranea, a cui anche l’Italia appartiene. Ho provato a raccontare quello che succede nello spazio di mezzo tra la vita in Europa e quella in nord Africa. Cosa lega queste due terre apparentemente lontane? E soprattutto: cosa succede, quando questi mondi vengono in contatto?
Il romanzo è stato recentemente tradotto in arabo: come lo hanno accolto i tunisini?
I lettori di tutti i paesi arabi hanno cominciato a leggere il romanzo grazie alla scelta di metterlo on line gratuitamente nel mese di maggio sulla rivista Ultrasawt.com e sulla piattaforma Abjjad.com, in attesa di poter stampare le copie cartacee quando sarà finita l’emergenza Covid19. Le prime reazioni dei lettori tunisini sono state di meraviglia. Ha stupito soprattutto il fatto che che fosse italiano, il primo romanzo ambientato nei giorni della rivoluzione tunisina. Mohamed Lehbecha, scrittore, critico e vice direttore della Casa del Romanzo, tra i primi a commentare il testo, ha sottolineato che “i tunisini non possono impedire a un romanziere straniero di scrivere sulla rivoluzione tunisina”. Ha spiegato che i tunisini non devono considerare questa rivoluzione come una proprietà personale, né le questioni tunisine come separate dal mondo: piuttosto, l’interesse dei romanzieri stranieri verso i loro problemi deve essere una fonte di orgoglio. Ha richiamato, per esempio, Salammbô di Gustave Flaubert, in cui è raccontato un periodo importante nella storia della Tunisia e di Cartagine, la rivolta dei barbari mercenari durante la prima guerra punica. Il professor Ezzedine Anaya, tra i primi a recensire il romanzo per al-Hayat, ha evidenziato come il libro contenga anche “una palese dichiarazione della difficile situazione dell’Occidente e dalla crisi sociale che vive”. Il personaggio di Mary rappresenta, infatti, l’Europa a disagio, in crisi di identità. A un certo punto della storia, faccio dire a Mary: “Ero inseguita da una forte sensazione di smarrimento. Mi sentivo una banderuola, sbattuta di qua e di là, ossessionata dalla domanda: a chi e a cosa appartengo? I miei studi mi stavano condannando al disagio dell’ibrido. Non mi sentivo più italiana, né legata ad altre terre. Mi percepivo di passaggio, in transito tra porti e aeroporti”. Ecco: questo aspetto non è stato notato della critica italiana, maggiormente incuriosita dal contesto rivoluzionario e dalla forza dell’amicizia tra le due donne. Invece la critica araba ha potuto percepire anche i mali dell’Occidente che ho rappresentato nel romanzo.
In un ciclo radiofonico di Radio3 Rai dedicato agli italiani in Tunisia, dice: “La mediterraneità è un destino. Come è successo a me”. Quando è successo? Cosa la ha fatta innamorare del Mediterraneo?
Il Mediterraneo è un destino, è vero. Sul Mediterraneo, innanzitutto, ci sono nata. Sono nata e cresciuta a Salerno che, come tutte le città di mare, offre un orizzonte ampio e mi sono sempre sentita a mio agio nei paesi del Maghreb, senza avvertire alcuna separazione tra la sponda sud e la sponda nord. Studiando e indagando la vita dei popoli mediterranei poi ho scoperto che esistono una storia e un’identità comune ai paesi che si affacciamo sul cosiddetto mare nostrum e ho preso a cuore il tema. In particolare, Italia e Tunisia sono legate da continue migrazioni di andata e di ritorno, e da secoli di scambi commerciali e culturali. Dunque, ho sentito l’urgenza di occuparmi di questa storia e di individuare attraverso la letteratura lo spazio comune occupato dai suoi protagonisti, di ieri e di oggi. Purtroppo non esiste una tradizione letteraria italiana dedicata a storie mediterranee. Il mio intento è quello di portare nei miei testi questa dimensione sempre con il doppio punto di vista, di chi vive a sud e di chi vive a nord del mare, come ho fatto in “Sul corno del rinoceronte”. Ovviamente anche la mia vita privata si svolge in questa dimensione e nutre quello che scrivo.
Nel 2015 hai rappresentato l’Italia al terzo Incontro Euro-maghrebino di scrittori a Tunisi dedicato alla letteratura di frontiera. Per le narrazioni dedicate al mondo arabo-mediterraneo hai ricevuto numerosi riconoscimenti, tra cui nel 2015 il Premio Prata e nel 2016 il Premio Marzani…
Sono felice che questa parte del mio lavoro venga riconosciuta. Sarebbe stato più facile occuparmi di altri argomenti a cui mass media ed editoria danno più spazio ma, per me, non avrebbe avuto alcun senso. Giornalismo e letteratura hanno in comune il compito di dare voce a chi non ce l’ha e in questo momento l’area mediterranea è zittita, offuscata, dimenticata. Anche perché gli interessi economici europei sono spostati altrove. Ma la gente del mediterraneo ha tanto da insegnare. Inoltre non dobbiamo dimenticare che, in quanto italiani, la storia del Mediterraneo è anche la nostra storia.
In Italia si conosce a sufficienza la letteratura di frontiera, quella del nord Africa? A parte alcuni autori molto noti, come Tahar Ben Jalloun, cosa si sa?
Penso che in Italia si conosca pochissimo della letteratura del Nord Africa, la si vede come una terra lontanissima. Invece Tunisia, Marocco, Algeria, Egitto distano solo una o due ore di volo. Si conosce la produzione di Tahar Ben Jalloun perché da 50 anni vive in Francia ed è supportato dal sistema francese. Per fortuna sono piuttosto note anche due scrittrici, la marocchina Fatima Mernissi e l’algerina Assia Djebar. Così come l’egiziano Alaa al-Aswani, autore di “Palazzo Yacoubian”. Negli ultimi anni si sta leggendo molto il libico Hisham Matar, noto per il bellissimo “Il ritorno”, premio Pulizer 2017. E’ stato apprezzato il romanzo “L’italiano” del tunisino Shokri al-Mabkhout, così come i romanzi del siriano Khaled Khalifa e della marocchina Leila Slimani. Purtroppo anche i libri hanno bisogno di un “visto” per uscire da un Paese, come le persone. Senza traduzioni ed editori coraggiosi, anche i libri restano imprigionati tra i confini dei Paesi. Conosco questa sensazione e per questo sono grata alla traduttrice Saoussen Bou Aicha per aver desiderato di tradurre la mia storia, al professor Ahmed Somai per il meraviglioso e fondamentale lavoro di revisione e a Khaled Soliman al Nassiry per aver pubblicato la traduzione del romanzo con la sua coraggiosa casa editrice, Al-Mutawassit.
In un brano del romanzo parla delle differenze fra culture, e di quante cose i popoli ignorino l’uno dell’altro. Quanto ha imparato, lei, in questi anni di frequentazione?
Ogni incontro è un’occasione per apprendere qualcosa dall’altro e, soprattutto, per imparare a rispettare l’altro. Ogni cultura ha la sua dignità e il rispetto è l’unico modo per vivere in pace. Oggi più che mai abbiamo tante opportunità per migliorarci, attraverso il contatto con le diversità. L’Italia ospita centinaia di comunità provenienti da tutto il mondo ma, spesso, quel senso di superiorità tipico degli abitanti dell’Europa occidentale impedisce la costruzione di rapporti profondi tra le persone. Lo sguardo italiano è ancora troppo impregnato di pregiudizi, di finti altruismi e di forme subdole di razzismo. La letteratura può senza dubbio aprire nuovi percorsi di percezione dell’altro. Quando scrivo, mi auguro sempre di riuscire a stimolare nei lettori – spesso chiusi, abitudinari e intimoriti dalle diversità – il desiderio di oltrepassare i confini noti, di sperimentare la strada del miscuglio, di azzardare un incontro insolito e di lasciarsi attrarre dall’ignoto.
Come è cambiata Tunisi dopo la rivoluzione?
Si è trasformata di continuo, come un bambino che cresce velocemente e cambia la propria fisionomia in pochi mesi. Parliamo di una giovane democrazia che cerca di difendersi in ogni modo da forze contrastanti di varia natura, come un fiore fragile e bellissimo che lotta per resistere alle intemperie. Nei quasi dieci anni trascorsi sono successe molte cose incoraggianti ed entusiasmanti, come la nuova Costituzione, le elezioni libere, il Nobel per la Pace al “Quartetto per il dialogo nazionale”, l’apertura della Città della cultura, l’emergere del movimento femminista EnaZeda. Ma anche tante altre preoccupanti e drammatiche come la radicalizzazione, i foreign fighters, gli islamisti al potere, l’immigrazione clandestina, gli attentati terroristici, la morte del turismo, disoccupazione e impoverimento crescenti e l’acuirsi del conflitto tra modernità e tradizione.
Prossimamente, a Tunisi, porterà anche un suo spettacolo.
Sì. Appena sarà possibile viaggiare sarò ancora a Tunisi, all’Istituto Italiano di cultura, con il reading musicale “Il canto libero delle stelle mediterranee” che porto in scena con il polistrumentista Stefano Saletti e la cantante Barbara Eramo. Per rimanere fedele alla mia idea di confronto necessario tra le due rive del Mediterraneo, anche questo testo crea un dialogo. Lo spettacolo nasce dalla voglia di raccontare le esistenze straordinarie di alcune delle più autorevoli cantanti del mondo arabo-mediterraneo e di celebrare il potere liberatorio della voce e mette a confronto le vite della diva egiziana Omm Kulthum, della principessa drusa Asmahan, della cantante tunisina di origine berbera Saliha e della star libanese, ancora vivente, Fairuz, con la nostra Rosa Balistreri, cantautrice siciliana, simbolo italiano dell’emancipazione femminile passata attraverso il canto.
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