Acqua, Ma. Nella prima sala, semi buia, si sente il suo rumore tranquillo. “Ma’ poche lettere in arabo, quelle che vedete scritte sulla parete. Comincia tutto da lì”.
Questa la prima sala e la prima, magica impressione della mostra dedicata all’acqua nell’Islam “Acqua, Islam e arte”, al MAO di Torino in questi giorni. Un’esposizione di oggetti, ma soprattutto una lezione sull’importanza di questo elemento per i musulmani, l’incarnazione dei suoi significati nell’arte e nei manufatti islamici, il suo senso religioso espresso nella letteratura e nel libro sacro. “L’acqua appartiene ai nostri sogni, evoca la vita, la nascita, la maternità, la pulizia, la purità, la sensualità e la morte”. E se questo è valido per ogni cultura, lo è in modo particolare in quella islamica, su un piano pratico ma anche religioso, spirituale e artistico.
La parola “Ma” ha una radice antica, molto diffusa nelle lingue semitiche, dall’accadico ma’a all’ebraico may, sempre con il senso più generico: acqua con cui abbeverarsi, purificarsi e lavarsi, nella vita e nella morte.
Il percorso propone l’acqua nel suo suo uso privato e pubblico, il suo ruolo fondamentale per la religione e i popoli. Nell’hammam, il bagno di purificazione e aggregazione, il ruolo religioso nel pellegrinaggio e nella preghiera, la sua presenza nelle città e nelle case, il giardino e l’oasi.
La parola acqua è citata più di 60 volte nel Corano: dio crea tutti gli esseri viventi dall’acqua e anche in Paradiso abbondano fiumi, fontane e sorgenti. “L’acqua è una delle più grandi promesse per i credenti e per questo motivo è da sempre legata ad alcune delle fondamentali pratiche religiose islamiche. Alla Mecca ai pellegrini, dopo la Ka’ba, li attende la fonte di Zamzam, un’acqua che secondo la tradizione cura e guarisce. La preghiera: ogni credente può avvicinarsi a dio solo purificandosi, con le abluzioni, quella maggiore in caso di grave impurità o la minore, ma in ogni caso è indispensabile per la salat, la preghiera da compiersi cinque volte al giorno. In questa sala, tappeti da preghiera, l’indicatore della Mecca, e altri pregevoli manufatti.
Hammam: dalle terme romane, non solo una pratica igienica ma anche sociale, un luogo di benessere e di incontro (d’affari, galanti) alla parola araba hamm per designare il caldo, che individuava soprattutto un luogo privato dei potenti, presto diventato uno dei luoghi più caratteristici e diffusi delle città islamiche. “Lavarsi, purificarsi curarsi: l’hammam è servito sempre a tutto questo. Ci si lava, ci si rilassa, si cura il proprio aspetto: gli uomini tingendo di rosso barba e capelli con il ligustro, le donne disegnando arabeschi sulle mani e sui piedi truccandosi gli occhi con il khol (la polvere di antimonio).”
Troviamo esposti bacili e ciotole antichi, asciugamani e pianelle. Lo stesso tema prosegue nell’arte della sala successiva dove pittori occidentali, i cosiddetti orientalisti, attratti da meraviglia e un pizzico di pruderie, raffiguravano o immaginavano i bagni turchi. È attraverso il mondo ottomano, a partire dal XVI secolo, che gli europei incontrano l’hammam e per questo lo chiamano “bagno turco”.
I viaggiatori dell’epoca di quei luoghi “videro poco e immaginarono molto. La sensualità del bagno e la sua valenza erotica erano ovviamente già ben presenti al mondo islamico, ma per gli europei l’hammam divenne quasi un’espressione tangibile di quella promiscuità e di quella lussuria che essi attribuivano agli ‘orientali’.
Nella sezione “acqua da bere” si ribadisce il ruolo essenziale di questo elemento, la sua importanza nella letteratura medica e gastronomica, l’uso pubblico e il come conservarla (in grandi giare di argilla e ricoperti da un pezzo di tessuto o foglie d’albero), il suo essere indispensabile per le bevande a base di frutta e la maniera per berla. I modi per i ricchi di averla fresca e pulita in tempi antichi, grazie a caraffe porose (che avevano l’effetto di abbassarne la temperatura di pochi gradi e filtri) o la possibilità per i più abbienti, anche d’estate, di comprare la neve: ma’ muthallaj, l’acqua mescolata a un pizzico di neve era una vera rarità. Brocche, filtri in esposizione.
Il suo uso pubblico: con la rappresentazione di fontane, e il meraviglioso schizzo su un taccuino a matita e carboncino su carta di Alberto Pasini di una donna araba che trasporta una giara (1855/6).
Dulcis in fundo, i giardini. “L’ombra di una palma, di un roseto o il mormorio di una fontana sono l’espressione di una difesa dal caldo ma anche di convivialità e raffinatezza che in pochi secoli si diffonde in gran parte dei centri urbani del mondo islamico”. Rimanda all’immagine dell’oasi, marca la differenza fra piante e deserto, terre coltivate e spazi liberi, sedentarietà e nomadismo.
I giardini dei palazzi lussuosi e gli alberi carichi di frutti e i quattro fiumi del Paradiso citati nel Corano.
Nella calda estate torinese, si esce da questa mostra…rinfrescati.
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