“Prima della rivoluzione, ho conosciuto un poliziotto che sputava sullo schermo quando in tv c’era Ben Alì. Era un funzionario pubblico che quindi in pubblico doveva proteggerlo, ma in privato lo detestava”.
Questo episodio, raccontato da Amin Allal, riassume bene la sintesi del libro “Tunisie, une democratisation au-dessous de tout soupçon” presentato all’Institut Francais de Tunis dagli autori Amin Allal, ricercatore del CNRS, e Vincent Geisser, direttore della rivista Migration Societè. “Ovviamente non in strada, ma era una forma di piccola resistenza. Questo voleva dire che il paese non era immobile”.
Il volume propone una lettura, non monolitica né retorica, sulla situazione tunisina grazie ad una pluralità di voci: giovani penne tunisine e non solo gli accademici, chi ha il doppio passaporto e le diverse generazioni. Il tutto, non tanto per un’analisi delle cause che hanno portato alla rivoluzione, ma per dimostrare la mancanza di una cesura tra il 2011 e il prima.
“E lo si capiva anche dalle piccole cose, barzellette, gesti, vi era una rivoluzione silenziosa che non tutti hanno visto – sottolinea Geisser – la democrazia non è nata nel 2011, c’erano i germi prima. Paradossalmente, c’erano anche nel partito unico, che a forza di convincere di essere una democrazia, ha stimolato la democrazia; c’erano persino nelle proteste precedenti, come quella del pane. Se la Tunisia è riuscita a cacciare il suo dittatore, questa forza c’era già da generazioni di cittadini e politici, c’era già una lunga storia”.
E questo vale per le donne, presenti sì nella rivoluzione, ma il movimento femminista era già presente da generazioni. “Non c’è una cesura sul prima e dopo: i processi del 2011 hanno una lunga storia, anche nel modo e nei luoghi di esprimere la collera, come Avenue Bourguiba, la sede dell’UGTT, o le prigioni, il ministero degli Interni. Anche gli slogan hanno una lunga storia, familiare o collettiva”.
Inoltre, la democratizzazione della Tunisia oggi parla a tutto il mondo arabo. “Per chi dice, ora è peggio di prima, lo vada a dire ai siriani, agli egiziani, che ci hanno creduto. In Siria, in Yemen, in Barhein, sventolano ancora le bandiere tunisine.”
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