Al Museo del Bardo sono stata quest’estate: una collezione meravigliosa di mosaici antichi. Pochi turisti, quasi solo noi, un amico professore universitario ed io. Davanti all’ingresso, proprio dove si sono verificati i fatti di sangue di questi giorni di marzo, ha salutato, ricordo, un militare: “Una volta non avrei mai pensato che sarei stato contento di vedere una divisa – mi ha detto – oggi gli sono riconoscente”. In un altro sito archeologico di rara bellezza, fuori Cartagine, a Utique, una piccola Pompei, un luogo in quei giorni d’agosto quasi abbandonato, una guida locale ci ha mostrato altre meraviglie, e non ha neanche voluto la mancia: “Dite ai vostri amici di venire a visitare questi posti – ci disse – è tutto quello che vi chiedo”.
Anche da questo, colgo la generosità e l’intelligenza di questa gente e ogni volta che ci torno mi sento più vicina: vivo la città non come un’alternativa a Torino, ma come un mio pezzo di mondo, qualcosa di totalmente diverso, che pure mi appartiene, per l’intensità di questi posti: dei colori, dei profumi, dei sapori. Per la delicatezza e la forza delle persone, la loro gentilezza, il loro coraggio.
So benissimo, infatti, che al di là della gaiezza dei posti eleganti della capitale, e delle coste attrezzate per il turismo, per parte della popolazione, la vita dopo la rivoluzione non è migliorata granché: ci vuole tempo e forza d’animo, mi dicono tutti, perché tanti, soprattutto giovani, non hanno lavoro, non hanno prospettive. Gli stipendi sono bassi e a volte servono a malapena per mangiare e tirare avanti. Tanti si arrangiano, tirano a campare – nel senso più nobile del termine – fanno l’impossibile per resistere allo sconforto e crearsi un futuro. Ma è molto difficile e le alternative quando la povertà lascia il posto alla miseria sono lasciarsi tutto alle spalle e scappare sui barconi, magari in Italia? La vita è dura quando vuol dire non sapere cosa sarà domani, se un giorno come oggi, privo di prospettive. È in tutto questo che si infiltra il terrorismo, l’integralismo, nel niente che vivono in tanti.
Di questo terreno di disperazione abbandonata dovremmo forse interrogarci e di questa gente che avrebbe solo diritto di vivere dov’è nata e dove sono nati i propri cari, la propria lingua, la propria cultura. Una cultura profonda da conoscere, da valorizzare che emerge concretamente nella sua bellezza e maestrìa nei quartieri più chic, a Ennasr, nella sua parte antica, la medina, nelle sue case meravigliose, nelle sue botteghe di artigiani, nei suoi gioielli. Nel suono che invita alla preghiera, nel suo cibo, nei suoi colori. Ecco perché a Tunisi ho parte della mia vita, ho i miei amici, il mio cuore.
Tunisi è anche casa mia perché ho la sensazione di averla da sempre conosciuta. Perché mi sento vicina alla sua gente che vuole tirare il fiato dopo una storia così pesante e lavora duramente e a testa alta per intravvedere prospettive migliori. Ci tornerò appena possibile e continuerò a parlarne. Chi vuole scoraggiare il turismo (voce importantissima dell’economia della nazione) per farla morire, non riesce a spaventarmi.
Tornerò, con la mia famiglia in ansia in Italia e parte dell’altra mia famiglia in attesa a Tunisi. E al popolo tunisino, coraggioso e paziente, ancora una volta e fortemente: bon courage!
Rosita Ferrato
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