Giulia dei poveri – Rosita Ferrato, giornalista, scrittrice, fotografa
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Giulia dei poveri

“Non la comunione, vorrei, ma la minestra!” . E’ il 1816 e queste sono le grida di un condannato imprigionato nella galera del Senato. Una signora le sente e qualcosa dentro di lei cambia per sempre: forse è proprio così che ha inizio l’interesse verso la gente carcerata, le famiglie in difficoltà, i diseredati. La donna è Giulia Viturnia Francesca Colbert Falletti di Barolo, ovvero Giulia di Barolo, una marchesa che tanto farà per la gente più misera di Torino dialogandone con i potenti, sensibilizzando addirittura il re Carlo Felice, quello che a teatro mangiava la “petit souper”- zuppa di trote e fettine di pane-, e che arrivò a incaricarla di promuovere una riforma carceraria che coniugasse carità e ordine.

Ma quella di Giulia non è solo una sfida teorica sui concetti e i principi: giovane e colta aristocratica, la ragazza sfida le convenienze di un mondo in cui la carità era fatta soprattutto di elemosine e con discrezione comincia a comporre un disegno sempre più articolato per prendersi direttamente cura di chi ha bisogno. In primis le donne, quelle povere, quelle più giovani, le abbandonate o quelle in prigione… Giulia di Barolo fa nascere delle case, dei luoghi di presa in cura della gente, tanto che alcune fra le sue molteplici attività iniziano addirittura proprio nella sua residenza abituale a Torino, nel Palazzo (appunto) Barolo, di via Delle Orfane. Due i grandi “complici” in questa operazione: il marito Carlo Tancredi Falletti, uomo ricco e influente, con cui condivise una vita e l’amore verso il prossimo, e Silvio Pellico. Il primo, conosciuto alla corte di Napoleone, la sposò appena ventenne e la portò nel 1814 a Torino; il secondo, la conobbe nel 1830 su richiesta di lei dopo il “lancio” dell’opera “Le mie prigioni” quando si ritirò in via Barbaroux dopo la drammatica esperienza del carcere austriaco. Saranno due uomini fondamentali perché la sapranno sostenere con la loro cultura, la loro amorevolezza e i loro ideali nella costruzione di una rete di punti di accoglienza per gli emarginati e nell’elaborazione della necessità di dare vicinanza umana, oltre che aiuto pratico ai più deboli. Giulia è instancabile: fonda asili per i figli dei lavoratori, orfanotrofi, monasteri, scuole per i più poveri. Istituisce anche il Refugium Peccatorum per le “donne penitenti”, un carcere pulito, soleggiato e senza sbarre dove poter mangiare e imparare un lavoro…

“Bisogna farsi amare da esse (le detenute), provando loro che le amiamo”, affermava la nobildonna, e sicuramente lei amò le persone.

Con l’epidemia di colera del ’35 vissuta pervicacemente a Torino, nonostante non mancassero per i coniugi luoghi più salubri dove ritirarsi, Giulia e Carlo non si risparmiano nell’organizzare soccorsi e assistenza. Provato dalla dura esperienza, nel 1838, il marito muore. Sulla sua lapide fu scritto: “Ha fatto del bene a molti, e molto avrebbe voluto farne a tutti”. Giulia è smarrita, ma rimane fedele alle attività di solidarietà e beneficenza che con lui aveva condiviso. Scrive: “Io devo scontare i secolari privilegi degli avi, devo saldare i debiti che essi hanno contratto coi paria e con gli sfruttati…” . L’ultima opera sarà la costruzione della chiesa di Santa Giulia, nel malfamato quartiere Vanchiglia, ove viene tumulata nel 1864.

12 milioni di euro: questo pare sia stata la cifra in termini attuali che Giulia di Barolo impiegò. Un patrimonio enorme, tale da essere comparato al bilancio di uno stato dell’epoca, espressione concreta di una mentalità innovativa che seppe interpretare a suo modo il passaggio dall’assolutismo indifferente alle miserie dei più all’attivismo sociale del dopo Rivoluzione francese e che tuttavia non le valse un riconoscimento unanime: da “Giulia di Barolo. Una donna fra Restaurazione e Risorgimento” (2008) di Simonetta Ronco: “Le accuse più ignobili vennero formulate contro gli istituti dei Falletti e contro gli intenti della marchesa nei confronti delle giovani donne che in essi venivano accolte. Si giunse a dire che le faceva rapire, per rinchiuderle contro la loro volontà lontano dalle famiglie. Naturalmente le accuse, portate davanti ai tribunali, furono subito dichiarate false.”
Per dirla come il sigillo che la marchesa aveva scelto: “Sursum corda” !

Vignette di Alberto Calosso
di Rosita Ferrato e Maria Cristina Sidoni

[Pubblicato su NuovaSocietà il 22 maggio 2011]

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