IL CHADOR NON CI RICORDA QUALCOSA? ANDIAMO A VEDERE LE FOTO DELLE NOSTRE NONNE
Islam e cristianesimo: due mondi distanti e paralleli. Che siano diversi lo sappiamo, che possano avere punti in comune sembra paradossale. In una sura del Corano le indicazioni date da Allah alle sue figlie sono chiare.“Oh Profeta, dì alle tue spose, alle tue figlie e alle donne dei credenti di coprirsi dei loro veli, così da essere riconosciute e non essere molestate”.
Che nel Corano si parli di velo è ovvio; meno che se ne parli anche nell’Antico Testamento, nel Vangelo e in particolare nella Lettera ai Corinzi, dove l’apostolo Paolo invita le donne del suo tempo a non pregare a capo scoperto, pena la vergogna: “Ogni donna che prega o profetizza senza avere il capo coperto fa disonore al suo capo, perché è come se fosse rasa: è decoroso che una donna preghi Dio senza avere il capo coperto?”
Sembrerebbe allora che l’uso di portare il velo abbia una radice comune: si diffonde infatti in tempi lontani, e passa da un popolo all’altro per assimilazione, durante di guerre di conquista e colonizzazioni; è legato ad antiche tradizioni e ha un uso pratico. Solo nella seconda metà dell’ottocento diventa un “tema” politico e acquista una valenza simbolica: è visto come segno di arretratezza (dai rappresentanti delle potenze coloniali), e come una difesa della propria identità culturale (dai musulmani).
Ma torniamo a oggi. In Italia alle fermate degli autobus, nei mercati, davanti alle scuole, le donne velate sono sempre di più. Il chador, la jihab o il burqua, sono considerati da alcuni italiani una barbarie…Ma perché invece di criticare non cerchiamo di capire e non ritorniamo indietro, a qualche decennio fa solamente?
Partiamo da un luogo “classico” per questo tipo di argomento: Orgosolo, variopinta cittadina a sud di Nuoro, nella Sardegna nord orientale, dove tutto è dipinto, ogni palazzo ha un murales. Le case si arrampicano sulla collina e a mezzogiorno le campane della chiesa invitano alla messa. Tra le vie, scivolano delle figure vestite di nero. Davanti alla sua abitazione, con una cazzuola in mano, una di loro stucca lo stipite della sua porta. E’ una delle donne velate di Orgosolo, coperta da una lunga veste dalla testa ai piedi e con una specie di chador, che se lei vuole le può lasciarle scoperti solo gli occhi. La tzia Bainjia, questo il nome della donna, si fa fotografare in cambio di due litri d’olio – squisito. Mi fa entrare in casa e mi offre pane e formaggio. La sua abitazione è semplice e dignitosa, la cucina ha mille pentole appese al muro. Non parla molto e non conosce molto delle sue tradizioni, della sua terra. “Le giovani non portano il velo, non sono vestite come me. Mia nipote porta i pantaloni. Solo le donne anziane si coprono.” Non sa il perché, è sempre stato così. Ogni tanto, con pudore, si copre anche la bocca. È seria e ha gli occhi tristi. Occhi dietro ad un velo, non è tanto diverso, nella foggia e nel significato, dal chador che suscita tante polemiche.
Se non avete parenti sardi o nonne a Orgosolo, o semplicemente non avete voglia di arrivare fin lì, potete fare un salto al museo Etnografico di Nuoro, dove nelle teche spiccano i colori vivaci dei costumi locali, maschere e curiosi paludamenti. C’è anche una lunga tunica con copricapo, una veste avvolgente, che copre la donna dalla testa ai piedi. Una didascalia dice che si tratta di una tenuta feriale che si indossava a Nuoro nel 1950. Sentite un po’ cosa racconta quest’altra iscrizione: “Nella Sardegna dell’Ottocento l’uso di coprire la parte inferiore del viso, di influenza orientale, era comunissimo”. Nell’isola di smeraldo del secolo scorso, donne con il velo appaiono ovunque, sorridono su guide turistiche e vengono animate in tutta la loro fierezza nei racconti di molti scrittori sardi. Le dipinge un Nobel (nel 1926): Grazia Deledda, che racconta di una società fortemente matriarcale. In uno dei suoi primi romanzi, La via del Male, la donna è descritta “con il viso incorniciato da una benda di tela tinta di zafferano” padrona e fiera di gestire la sua roba.
Tutto questo per dire: non dobbiamo scandalizzarci o sentirci superiori quando si parla di burqa o di chador, e pensare a cosa eravamo; può non essere solo un velo a limitare la libertà della donna. Quanto è imposto e quanto è necessità o eredità di una cultura?
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