Non ho voglia di uscire di casa. Sono snervata, frustrata, ancora tesa. Non riesco a non rimuginare. Certo, è una cena noiosa, ma sicuramente lo ha fatto apposta. Un litigio creato ad hoc, tipico suo comportamento. Trova un pretesto, si sfoga, litighiamo, evita i contatti e la mondanità. E torna il giorno dopo, come se niente fosse stato.
«Ya tayane, ya miboun, ya nayek», gli rivolgo mentalmente tutti gli insulti peggiori che mi vengono in mente in tunisino, e che mai potrei dirgli. Ma li penso.
Fatto sta che mi ritrovo alla cena di gala di Dar El Jeld, uno dei posti più snob e più noiosi del mondo. Da sola. E cosa spero di trovare qui? Certo, è un albergo elegante. Ma – mio Dio – sempre lo stesso tipo di gente. Expat con l’aria supponente, coppie miste molto chic, false come Giuda.
Sì, perché le coppie, stasera soprattutto, non le sopporto. E, guarda caso, ne ho proprio una seduta davanti. Non ho neanche voglia di sfoderare un sorriso di circostanza. Mi irritano, ecco tutto.
Ecco i miei dirimpettai: lui, un ragazzotto italiano elegante, profumato, incravattato, di umore radioso. E che dire di lei? Solare tunisina dalla pelle ambrata, le labbra polpose, sensuali, valorizzate da un rossetto viola chiaro. Potrei copiarla ma no, non ho lo stesso charme, la stessa bellezza, e lo penso soprattutto stasera.
Li osservo, mi ignorano, presi l’uno dall’altra.
Poi lui, forse, si impietosisce e mi rivolge un saluto.
Rispondo con un mezzo grugnito.
Rinuncia.
Faccio finta di niente e li ascolto. Non me ne vergogno neppure, quasi origlio.
Lei: «Bello lo spettacolo di danza l’altra sera.» Ecco: la fiera delle banalità, anche fra amorosi.
Tra l’altro, saranno una coppia legittima? Amanti, coniugi? No, coniugi no, si guardano con troppo trasporto. Nessuna risposta da parte di lui. Forse neanche ha bisogno di rispondere, tanta è la complicità. Lei sarà succube, in accordo senza neanche parlare. Oppure c’è altro. Si, secondo me c’è altro.
«Peccato non ci fosse tuo fratello», insiste la ragazza.
A questa frase, lui arrossisce improvvisamente. Le sue dita si muovono, gioca con il tovagliolo, è nervoso. La sua bella deve avere toccato un tasto dolente e neanche se ne accorge, la cretina.
Gongolo. «Tuo fratello…», insiste lei. A questo punto anche i muri avrebbero che quell’argomento lo mette in imbarazzo. Lui che, infatti, alza gli occhi verso di me (per la seconda volta nella serata, bontà sua) e controlla la mia reazione. «Sì, chérie, ne parliamo a casa.» Dunque sono una coppia di fatto, sposati o conviventi, e con qualcosa da nascondere. Lui le rivolge uno sguardo dolce, ma infuocato.
«Ma habibi…tuo fratello minore. È un po’ che non lo vedo…»
Lui perde il suo smalto. Abbassa il tono della voce e quasi sibila: «Ma non ti ricordi?»
La donna sarà anche bella, ma non è molto sveglia. Lo fa proseguire.
«Francesco… è … fiddar khaltou!» Ah, litigi in paradiso! Sono compiaciuta, la mia invidia ha trovato finalmente un modo per sfogarsi. Ai due splendori deve essere sfuggito che io, il tunisino, lo capisco. E anche piuttosto bene. Il fratellino è fiddar khaltou, a casa di suo zio. Che in gergo locale significa che è… in galera.
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